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- Autore: Redazione BlogDiMusica
- Pubblicato: Set 4, 2015
- Categoria: News
Brunori e la sua “società a responsabilità limitata”. Opera in sei atti osceni.
13 agosto. Tipica serata salentina di mezza estate, uno scirocco che ti si appiccica addosso, prepotente, e orde di turisti che si accalcano ai crocicchi delle strade, senza fiato. Siamo all’interno dell’anfiteatro, appollaiati sulle sedie e sulle gradinate infuocate, in attesa dell’inizio del concerto e con la speranza che, da qualche parte, s’alzi un alito di vento. Il vento, ovviamente, non si fa vivo neanche a pagarlo a peso d’oro, ma Dario Brunori sì, lui c’è, e sale sul palco visibilmente emozionato e grondante di sudore. Lo scirocco, si sa, non guarda in faccia nessuno.
Prende postazione in un angolo del palco, sistema i fogli sul leggio, li lascia cadere, li raccatta alla meglio, disordinati, confusi, e tra gli applausi generali di un anfiteatro decisamente divertito dal siparietto dà inizio al suo monologo, il primo di sei flussi di coscienza carichi di autobiografia e sentimento, in cui prova a ripercorrere le tappe più importanti e gli episodi più significativi della sua vita. I musicisti gli coprono le spalle e gli stanno dietro con una naturalezza e una complicità che stupisce sin dalle prime battute. Una grande, bellissima famiglia, una società a “responsabilità limitata”, appunto, come recita il titolo stesso dello spettacolo, unione perfetta di pubblico e artista, tanto che ci pare conoscerlo da una vita, e tutti ci immedesimiamo nei suoi racconti, ambientati a Joggi, il suo piccolo paesino di 500 anime, piccolo mondo antico in cui, sottolinea lui stesso, “ognuno è qualcuno … e il soprannome, cioè il nome che ti regala il paese, è più importante del nome anagrafico”.
Il primo intermezzo musicale ci coglie quasi impreparati, ma quando intona “Tra milioni di stelle” è subito magia; continua poi con “Lei, lui, Firenze” e “Una domenica notte”, canzoni d’amore semplici ed immediate, che ci trasportano nel vivo dello spettacolo e ci rapiscono così, senza giri di parole, in perfetto stile Brunori. L’alternanza monologhi-intermezzi musicali si sussegue per tutta la durata del concerto, due ore e mezzo di parole e note: Dario chiama in causa Carmelo Bene e il suo teatro sperimentale, cita il sommo De Andrè, ironizza sui propri testi, così semplici ed elementari, scherza col pubblico e non risparmia certo nessuno. È un vortice di naturalezza immediata, ne siamo palesemente catturati, impossibile non ridere alle sue battute.
A metà concerto, lo spettacolo assume decisamente una piega più intimistica ed emotiva: Dario si siede, abbraccia la sua chitarra, e parte a raffica con i racconti sul padre, la sua assenza più grande. Lo ricorda nei suoi episodi più esilaranti e divertenti, ma il tono è sommesso, commosso, la voce incerta, e a noi pare di sentirla sulla nostra stessa pelle questa mancanza, questa morte che lo coglie impreparato e che lo mette dinanzi a delle responsabilità, a delle scelte di vita che prima o poi tutti dobbiamo affrontare. Alle note di “Bruno mio, dove sei”, triste preghiera della madre al marito perso all’improvviso, l’anfiteatro intero si ammutolisce, commosso, ma l’applauso finale è forte, caldo, sentito. Dario ringrazia veloce, si ricompone e poi riprende lo spettacolo più in forma di prima, intonando successi vecchi e nuovi e compiacendosi di un pubblico così partecipe e preparato. “Nanà”, “Le quattro volte”, “Maddalena e Madonna”, poi ancora “Sol come sono sol”, “Pornoromanzo”, “Il giovane Mario”, “Come stai” e “Italian Dandy”: c’è spazio per tutto, e tutto sembra prepararci ad un finale col botto.
Un ultimo monologo sulla responsabilità che un artista ha nei confronti del proprio pubblico, sulla fame di fama che è sempre in agguato, e poi via, verso la chiusura dello spettacolo, accompagnati dalle note di “Kurt Cobain” e “Arrivederci tristezza”. Il suo “Mambo reazionario” ci scalda e ci carica per “Guardia ’82”, a fine spettacolo siamo tutti in piedi e gridiamo a squarciagola quel motivetto così trascinante e compulsivo: è una festa di luci, immagini, suoni, colori, degno finale di un live che vale assolutamente la pena vedere, vivere, assaporare. Una nota di merito particolare va ai musicisti e ai tecnici del suono e delle luci, compagni di lavoro e di vita dell’artista. Consigliatissimo, senza alcun dubbio.