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- Autore: Redazione BlogDiMusica
- Pubblicato: Lug 30, 2015
- Categoria: Recensioni
I migliori live del Vasto Siren Festival 2015
3. SUN KIL MOON
Mark Kozelek è uno che a nemmeno cinquant’anni ha già vissuto mille vite, tutte segnate a vario titolo dalla sofferenza, e per questo è capace di picchi di lirismo sconosciuti a gran parte dei songwriter. Ma Mark Kozelek è anche un rinomato stronzo, uno che imbruttisce i fotografi e inveisce contro ignari colleghi impegnati su altri palchi (si veda, per tutte, la polemica assolutamente pretestuosa con Adam Granduciel di The War on Drugs).
Tuttavia Mark Kozelek può permettersi una backing band con Neil Halstead degli Slowdive e Steve Shelley dei Sonic Youth (ed è subito anni Novanta). Può permettersi di finire in un film di Paolo Sorrentino (con cui condivide il gusto per la buona musica e la fama di antipatico). Può permettersi di zittire il pubblico chiacchierone quasi con la sola forza disperata delle sue canzoni (e con qualche “ssshhh” che fa temere il peggio, e cioè una repentina discesa dal palco per menare qualcuno).
I suoi pezzi sono narrazioni di amplissimo respiro (sulla scia della tradizione folk americana) che, se lasciano a bocca spalancata su disco, dal vivo – con attitudine meno “acustica” di quanto ci si aspetterebbe – guadagnano in profondità. Due le vette emotive del set: Carissa, capolavoro di Benji (2014), trasfigurata in un blues dilatato e doloroso, e la cover commossa di The weeping song con dedica a Nick Cave, dimostrazione d’affetto discreta per un uomo sconvolto da una terribile tragedia familiare.
Alla fine resta solo il tempo di concludere il concerto presentando i musicisti divertiti a ritmo di musica e di aizzare il pubblico contro l’ignaro Clark, reo di occupare il palco a seguire. Tanto per non smentirsi mai.
2. SCOTT MATTHEW
“Vorrei suonare qualche pezzo più allegro, ma a dire il vero non ne ho”. È dolce, l’australiano dalla barba lunga, tanto dolce quanto cupo (e viceversa). La location del suo concerto è la più bella del festival, i Giardini d’Avalos: su uno sgabello, circondato dal verde e dalla gente, con solo una chitarra, un ukulele e la forza della sua voce che sa essere ruvida e morbida insieme, tiene inchiodato il pubblico alle sedie per un’ora nonostante le campane e i live (uditivamente) “ingombranti” delle Pins e soprattutto di Colapesce a pochi passi.
Non inganni l’aspetto da hipster (sottolineato da estrosi calzini arancio fluo): Scott Matthew suona e canta come un folksinger d’altri tempi, dialoga col pubblico con intrigante timidezza, ipnotizza e stringe il cuore. Non si risparmia, alternando con disinvoltura brani propri a cover intense: e quasi non se ne noterebbe la differenza, se non fosse che si tratta di canzoni davvero troppo famose, ma riviste con una grazia tale da renderle necessarie.
È così che il pubblico titubante fino all’ultimo, quasi non volesse rompere la magia, si scioglie e si azzarda a canticchiare sui ritornelli di pezzi storici come I wanna dance with somebody e No surprises (accolta con “uuuuh” di soddisfazione), a chiudere un set che scivola via come seta.
1. JAMES BLAKE
Cominciamo col dire che se non vi piace James Blake vi meritate tutta la musica che dite di odiare. A maggior ragione se avete avuto la fortuna – sì, fortuna, trattandosi di unica data italiana – di essere presenti al suo live set a Vasto (il verbo “ascoltare” non è usato di proposito: più che di un concerto, si è trattato di un’esperienza mistica).
Continuiamo poi col dire che James Blake è dio: e il problema non è che lo sia adesso, a neppure 27 anni (non vi deprime?). Il problema è che lo fosse già quattro anni fa, all’epoca del suo album d’esordio, quando di anni ne aveva 23 e si stava inventando un genere (soul-dubstep, post-dubstep, whatever) unendo l’elettronica a una voce capace di fermare il tempo.
L’eleganza e la discrezione sono doti naturali ed evidentemente non si possono imparare: è questa la lezione di chi usa i silenzi più dei gorgheggi (vedi ad vocem: Limit to your love), di chi non fa che chiedere scusa per dover ri-campionare l’inizio di Retrograde (mentre il pubblico è semplicemente ipnotizzato), di chi dal vivo dà sfogo a tutto il soul che inesorabilmente cova nelle viscere (con parziali straripamenti nello spiritual, come in I never learnt to share).
Unica nota stonata del concerto: a un certo punto è finito. E, soprattutto, è finito male: con la scelta discutibile di interrompere la trance con del reggae a tutto volume, come uno schiaffo in pieno volto.
MENZIONI SPECIALI:
Al gran set dei Verdena presi benissimo e divertiti, persino (e ce le ricordiamo tutti le scenate di Alberto durante la prima parte del tour nei club).
A Iosonouncane, il cui mezzo capolavoro Die non perde neppure un grammo di intensità dal vivo.
A Colapesce, per il live con i suoni più sbagliati di tutto il festival (e nonostante questo, soprattutto).
Agli Is Tropical, per essere riusciti a racchiudere tutto il peggio degli anni Ottanta su un solo palco (synthoni non proprio eleganti, musichette e fregne ballerine. Ma il bello del Vasto Siren Festival è anche questo).